L’unica volta in cui vidi una cicala fu molto tempo fa, essa era fieramente aggrappata alla corteccia di un albero ma non si muoveva, era lucida ed immutabile in quella plastica posa e pian piano mi avvicinai.
Quel dì udii un pianto lontano e soffuso: disperato canto di una ninfa straziata.
A quel punto toccai la superficie artigliata e fragile la quale esplose all’improvviso.
Da essa nacque un turbinio di polvere dorata, si trattava del delizioso involucro che conteneva il cuore della ninfa.

Ultimamente accade.
Osservo con occhio attento tutta la normalità del silenzio, la vedo infrangersi -giglio di cristallo- in un fragoroso boato sul debole pavimento della mia mente, la quale desidera solo sognare.
Ossessionante identità compromessa è la mia, fatta di soffici piume ed oscura notte. Dolce nel suo canto.
Cullami, oh Sera, per impedire al mio volto d’incontrare la luce del mattino, la sofferenza immotivata che mi strugge.
Sarà così bello sognare di realtà distanti. Non voglio più svanire come una foglia portata via dal tempo, tra volteggianti turbinii d’aria.
Ed odo ancora quel canto tra lacrime mai versate.
Singhiozzi dell’anima.

Nel delirio di una notte senza stelle incontrai una donna dalla pallida carnagione, era brillante e luminosa come una scia nell’ombra. Essa narrò proprio a me cosa si celava nei sogni.
Fu quella la volta in cui vidi cadere dal cielo enormi tizzoni ardenti seguiti da una lunga coda di cenere. Convergevano tutti sullo sventurato tetto di un palazzotto vicino ed io ammiravo allibita ed estasiata come i volti cerei degli spettatori non celavano la loro paura: tremavano tutti.

Delirio apocalittico.
Delirio.
Delirio apocalittico.

Odo il canto del gallo nel freddo mattino d’inverno, tra le leggiadre lacrime del cielo sparse sulla terra corrotta e disabitata di un paesino inesistente.
Odo il canto di uno spirito inquieto racchiuso tra le polverose mura di un palazzo in rovina.
Si muove spasmodicamente e grida vendetta contro un mortale divenuto cenere da troppi lustri, il cui corpo disperato giace in una cantina ammuffita.
Arriverà mai il giorno in cui comprenderà che la sua essenza altri non è che parte del muto scheletro relegato in un angusto spazio?

Una volta sognai un marchio, era scarlatto e sanguinava copiosamente come se la carne sulla quale figurava fosse stata brutalmente incisa sino in profondità. Non aveva una forma precisa, ma sembrava bruciare sull’altrui membra quasi come se fosse nato dall’interno.
Credo che fosse un incubo, o almeno così sono comunemente definite tali produzioni della psiche.
Malgrado non vi siano segni visibili, temo che le diversità interiori rappresentino ugualmente una reale e tangibile sofferenza.

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E’ un’irrilevante mormorio che svelerà parole mai dette,
silenziosamente deposte su di un alto e signorile cuscino.
Altre bugie, o semplicemente parole che verranno rinnegate
per incondizionato riflesso dell’umana abitudine.
Altri fantasiosi racconti sulla carta ingiallita: poetica calligrafia del Giullare Malevolo.

Parlando silenziosamente in una stanza oscura chiamata anima, un debole sospiro narrerà a se stesso, sul collo fragile e pallido, che il mondo è composto di sguardi ridenti e sguardi rinnegati.
Una percossa riprovevole del male genitore ed una breve caduta verso l’oblio fantasioso fatto di immateriale compostezza e sogni irrequieti.

Disdetta invocata da un sovrano deposto.

E’ così amara quella sensazione che sale dal profondo e muta in bile arcigna,
un incubo vicino scorto tra arbusti e fili d’erba bagnata.
Piccole perle color rubino, le quali, una dopo l’alta si allineeranno.

Breve consulto del’impiccato con la mala sorte delle stelle.
Agonizzante se ne sta in una posa rigida,
e le palpebre vuote saranno teatro per mosche affamate.

Insignificante e ripugnante ammasso informe di memorie avvolte da un lattiginoso involucro.